La antiche tradizioni del popolo agrigentino di un secolo fa - Agrigento Ieri e Oggi

2023-01-05 18:17:56 By : Ms. Dorothy Meng

8 Dicembre 2022 //  by Elio Di Bella

Agrigento, fino a pochi anni fa chiamata Girgenti, sorge su di un terreno collinoso, variamente accidentato, per cui vista dal basso, per esempio, dall’attuale stazione ferroviaria, appare come un presepe, alla stessa maniera di tante altre città situate sui dorsi di monti o di colli.

Le case, in generale, sono assai modeste, e sovente hanno stanzette basse, umide, buie, dove non penetra un raggio di sole; i muri sono affumicati dai grossi focolari, e le pareti portano attaccati quadri di Santi e figure di Madonne.

Ili taluni sottani, che possono chiamarsi vere grotte, i tetti sono fatti di travi, imbianchiti alla men peggio, ed insieme con l’uomo abitano galline, muli e somari. Nell’interno di molte casupole vi sono piccoli giardini, che offrono un po’ di luce e d’aria, e rompono la monotonia non piacevole all’igiene ed all’estetica. Spesse volte per accedervi bisogna salire, per mezzo di piccole e strette gradinate esterne, coperte da mattoni in vario colore e disegno, oppure dal tufo giallastro, che si scava nella collina, e che si screpola c si sfalda all’azione dell’acqua, del sole e del vento.

Quasi tutte le case sono sprovviste d’acqua, che la gente va ad attingere dalle pubbliche fontane con orciuoli di media grandezza chiamati « quartare», tutti a forma cilindrica oblunga, che finisce con piccola apertura, ed a due maniche brevi verso il collo.

Vi sono numerose chiese, di cui tranne la Cattedrale che è un importante monumento d’arte romanica, ricco di opere d’arte, ben poche hanno bellezze di facciate e d’ornamenti. La vita che si svolge per le vie è poco movimentata; appare attiva c vivace solo nei giorni di festa, quando i contadini accorrono per le provviste dalle cittaduzze e dalle borgate circostanti.

 Gli abitanti sono buoni, onesti, laboriosi, e si mostrano assai garbati con i forestieri. Vestono come tutti gli altri isolani; solo i vecchi contadini conservano qualche caratteristica dei tempi passati, come gli abiti di sargia nera o di velluto, le mantellette e le cappucce.

Qualcuno usa ancora il berretto di stoffa nera, come quello che portava Garibaldi; altri si coprono con papaline lunghe tessute in casa, che finiscono con fiocchetto, menato all’indietro; i vecchi contadini hanno gli orecchini. D’inverno portano in capo uno scialle di lana scura, col quale si coprono anche le spalle. Le cappucce son lunghi mantelli alla cui parte superiore è aggiunto un cappuccio per coprire interamente il capo.

Il vestito delle donne non ha nulla di particolare, se si esclude la mantellina di panno nero, residuo dei costumi arabi. Stanno quasi sempre in casa e disimpegnano tutti gli uffici domestici; sono pazienti, umili, lavoratrici e aiutano i mariti nelle diverse faccende; sono poco ciarliere cd amano l’ordine e la pulizia.

Non crediamo di dire cose nuove e peregrine, perché la Sicilia è stata studiata con tanta passione e intelletto d’amore dall’immortale Pitrè, dal Salomone Marino, dal Vigo e da cento altri cultori di demopsicologia italiani e stranieri, ma intendiamo esporre le nostre modeste impressioni avute in occasione di un incarico ministeriale presso un istituto di Agrigento per portare la nostra piccola pietra al maestoso edificio innalzato da tanti competenti. Perciò accenneremo a qualche usanza che ci è parsa più degna di rilievo.

Il popolo agrigentino, come del resto tutti i volghi siciliani, è assai religioso; lo dimostra il gran numero di chiese e di preti che godono universale considerazione, le tante edicole, tabernacoli, nicchie con statuette e dipinti di Santi e di Madonne, con Crocifissi dinanzi a cui ardono ceri votivi, lampade ad olio o lampadine elettriche. I buoni fedeli non mancano di ornare tali altarini di fiori e di corone, e in occasione di feste, li abbelliscono con trofei di candele e di ghirlande, con drappi e tappeti di seta, ed innanzi ad esse fanno suonare minuscole bande e l’immancabile tamburo. Non c’è popolano che non abbia in casa la statuetta di S. Calogero, o di S. Giuseppe, o del Santo Protettore S. Gerlando; innanzi ai loro quadri o immagini fanno altarini, accendono ceri e lampadine, e recitano canti religiosi. In talune chiese dove si venera il Cuore di Gesù, il parroco imbussola dei cartellini portanti i nomi di quei devoti che desiderano avere il privilegio di tenere in casa per qualche giorno la sacra immagine. Il fortunato, il cui nome è stato sorteggiato, prende dalla chiesa la statua, e la porta a casa sua in processione, preceduto dal solito tamburo; invita parenti ed amici a pregare in una determinata ora, accende candele e lampade innanzi all’altare ben preparato, e dopo i canti e le invocazioni dispensa dolci e gelali. Dopo una settimana o un mese che ha tenuto la statua in casa, la riporta in chiesa con la stessa cerimonia, perchè sia consegnata ad altro devoto.

Le processioni sono variopinte, rumorose, interminabili, e si snodano principalmente in Via Atene, che è pavesata da bandiere di tutti i colori, da festoni di verdura tirati ad arco da una casa all’altra; un gran numero di cordicelle lega una casa con l’altra, e sorreggono una miriade di lampioncini di carta variopinta che danno l’idea di una luminaria alla veneziana; dopo il passaggio della processione i monelli strappano bandieruole, orifiamme e lampioncini e ne fanno grandi falò. In onore del Protettore S. Gerlando e di S. Calogero celebrano feste assai chiassose e caratteristiche.

In diverse epoche dell’anno si compiono riti e cerimonie sacre, che non sempre ‘trovano riscontro in altre città dell’isola. Per esempio il giorno della festa di S. Giuseppe i devoti dei diversi rioni vanno alla questua di legumi, riso, farina, pasta, e preparano il pranzo ai poveri in pubbliche piazze. In vicinanza di talune chiese si usa offrire il banchetto alla Sacra Famiglia, che è rappresentata da un vecchio vestito come S. Giuseppe, da una povera, che raffigura Maria, e da un fanciullo, cui danno gli attributi di Gesù. Mentre i tre poverelli mangiano, serviti da signorine e popolane, suona continuamente l’immancabile tamburo, ed i monelli si abbandonano a grida chiassose.

Assai grande è il culto che il volgo ha per l’Immacolata, alla quale fa la novena, accende lumi e recita preghiere. Il giorno della vigilia oltre al digiuno esso «fa il viaggio» alla chiesa ove si venera l’immagine, cioè ognuno alle quattro va a sentire la prima messa, per cui nessuno va a letto la sera precedente e passa la notte in veglia e preci. La sera si costuma mangiare i « muffoletti », che sono pani nel cui mezzo si mette della ricotta con « frittuli » cioè residui di carne suina, da cui è stata estratta la sugna.

Sempre piena di dolce poesia è la festa del Natale, quando i pastori vengono dalle campagne a suonare la cornamusa, la ciaramedda, l’acciarino, i cerchietti di legno o di metallo con sonagli di ottone, e cantano i Ninnareddi. Gli zampognari per nove sere si fermano a determinate ore sotto le iconi illuminate, ed innanzi ai presepi, nelle case, trilla la cornamusa tra le preghiere dei vecchi e l’allegria dei fanciulli, che li circondano estasiati. Alcuni devoti radunano pezzi di legna, fascine, paglia, e accendono dei grandi falò; mentre le donne recitano le novene o mormorano preci, i monelli fanno un chiasso assordante, e saltano in mezzo alle fiamme.

Oltre agli zampognari girano per la novena in onore di Gesù Bambino anche minuscole bande musicali accompagnate da cantanti, che recitano particolari filastrocche dinanzi a Tabernacoli o ad effigie sacre. La novena si riprende a Capo d’anno, e dura sino alla Pasqua Epifania, quando i cantanti, ricevuta la mercede pattuita tornano alle montagne.

Le cerimonie della settimana santa non hanno nulla di caratteristico; solo il venerdì, durante la predica dalle tre ore dell’agonia, quando il sacerdote schioda Gesù dalla croce, ad ogni chiodo che toglie, i popolani si battono fortemente le guance in atto di pentimento, e per la chiesa echeggiano suoni lamentevoli ed accenti di dolore. Il sabato, appena il celebrante dà il segno della resurrezione, si sparano colpi di fucili e di rivoltelle, i monelli armati di grosse mazze, battono dietro le porte delle case, gridando: « nesci, diavulu, e trasi Maria ». Le mamme mettono i bimbi di faccia per terra, sicure che così essi imparano presto a camminare. Anche gli uomini si buttano di faccia a terra, e ognuno bacia la persona nella quale si imbatte.

In quel giorno si mettono da banda le inimicizie, e tutti si stringono la mano.

Come a Natale le donne preparano il cenone, con manicaretti c dolci d’occasione, così a Pasqua si mangia « lu cucciddatu » che è una torta con fichi e zucchero, «la cassata» torta succulenta fatta di crema, uva passa, fichi, ricoperta di frutta candite, il « panareddu » che è una torta fatta di pasta, zucchero e uova a forma di cesto con manico.

Accenniamo a qualche usanza particolare. La notte fra Ognissanti e i Morti le famiglie usano fare delle sorprese ai fanciulli, ai quali danno a credere che i defunti portino loro dei doni; perciò nascondono dietro gli stipi o armadi bambole, giocattoli, vestitini, dolci, monete, e dicono loro di cercare « i cosi ri morti ». I bimbi cercano affannosamente d’ogni parte, e finalmente trovano un oggetto sotto un cassettone, un altro dietro una mensola, c sono felici d’aver ottenuto quello che desideravano dai morti, ai quali nei giorni precedenti indirizzano letterine affettuose scritte dalle mamme.

Il giorno di S. Lucia non si mangia pane nè pasta, ma si costuma preparare le « panelle », che sono un impasto di farina di ceci con riso, oppure «la cuccia» che è una torta rustica fatta di ceci, fave, granturco o frumento, tutto bollito con miele, cioccolato o crema. Si dice che tale nome derivi dal seguente aneddoto, che un anno essendovi grave carestia, il popolo attendeva il grano da paesi lontani. L’attesa era assillante, ma non arrivava mai il grano desiderato; finalmente un glorino quelli che erano in vedetta, scorsero un bastimento, ed esclamarono: «cuccia», «cuccia», che vorrebbe dire: «Eccolo finalmente!».

A Carnevale escono le solite maschere di Pulcinella, mori, uomini in vestiti da donne ecc. Caratteristici sono i cosi detti duttori, che mettono lunghe tube in capo, e ornano il petto di svariate medaglie. Si fermano nelle piazze e fingono d* leggere su libri tutte le gesta delle persone più in vista. Si frizzano autorità, si narrano vita e miracoli di usurai, ladroni, amministratori truffaldini. Specialmente quando c’era il dazio consumo, si rivelavano malversazioni e marachelle di esattori e contrabbandieri, si denunziavano furti e si colpivano, fra le risate generali, i corrotti e i corruttori.

Il «Nanno » è un grosso bamboccio di paglia, che si porta in buffa processione, e sulla fine della lesta carnevalesca si brucia dinanzi alla porta della città fra grande fracasso della ragazzaglia.

Abbiamo detto che i popolani hanno pochissime caratteristiche, che li distinguono dai compagni delle altre città. Per le vie non si vedono i soliti trainclli, ma muli o asini, carichi di grosse bisacce o di ceste d ogni dimensione. I venditori ambulanti sono dei canterini instanca¬bili, e nell’offrire la loro merce fanno delle lunghe cantilene assai graziose. Tutte le frutta, i commestibili, le verdure si vendono in ceste, ed anche il pesce è trasportato da muli in ceste particolari, piene di erbe marine, che Io mantengono fresco.

Si usa una bilancia leggera, che ha un piattino grande, dove si collocano i commestibili, ed una piccola per il peso. Le mucche che girano pei le diverse viuzze, portano al collo piccoli gioghi, legati con cordicelle alla parte inferiore; come i carretti sono dipinti con disegni originali, cosi questi gioghi di color marrone hanno dipinti fiorellini e foglie di color rosso o azzurro o giallo; talvolta anche le capre portano piccoli gioghi dipinti, per mantenere le campane. Nelle beccherie i banconi hanno nella faccia anteriore ligure di teste di montoni, di capre, di bovi, o di maiali con cornici di fiori e di foglie. I carretti usati da contadini, manovali, venditori e simili sono assai belli e pittoreschi, come quelli che si vedono a Palermo ed in tutti i paesi della Sicilia, e gli animali da tiro hanno basti colorati e riccamente ornati di nastri, pennacchi campanelli e specchietti, portano pettorali di panno rosso con frange, fiocchetti e campanelli, e alcuni hanno piccole e caratteristiche gualdrappe che chiamano « talarini ».

Accenniamo a qualche usanza riguardante il matrimonio fra i ceti più bassi del popolo. In generale non è il giovanotto che sceglie la compagna della sua vita, ma la madre. Quando essa vede che egli è malinconico, che si mostra sgarbato con tutti, anche con gli animali, capisce che ha risoluto di prender moglie, ma non ha il coraggio di manifestarlo. Allora pensa quale sia fra le conoscenti la fanciulla che meglio si adatta al suo figliuolo, e senza dirgli nulla, si reca in casa di lei, chiama in disparte la madre e le fa la proposta. Se viene accolta, si conclude presto il matrimonio senza che i due giovani ne sappiano nulla. Si fissa un giorno nel quale deve avvenire « la cunuscenza », cioè si fa la presentazione degli sposi c si determinano i patti delle nozze. Non è permesso al fidanzato di frequentare la casa della fanciulla del suo cuore, perchè se per una ragione qualsiasi si scombina il matrimonio, ella non sia compromessa. Solo gli è consentito di vederla e di parlarle qualche ora la domenica. Però nelle notti lunari egli può recarsi presso la sua casa, a portarle la serenata cantando dolci canzoni e accompagnando i versi con l’organino e col «magarruni». All’approssimarsi delle nozze si fa la stima dei panni « la prizzatura », e spesso avr vengono discussioni e baruffe sul valore che la « stimatrice », donna esperta di tali cose, assegna ai singoli pezzi di biancheria. La nota del corredo, « pidazu » o « capituli », si conserva gelosamente anche dopo il matrimonio.

Giunge il fausto giorno, ed il corteo si muove dalla casa della ragazza, tutta ornata a festa. Le donne conducono in mezzo la sposa e vanno avanti; dietro segue lo sposo con amici e parenti. Sia nell’andare alla parrocchia, sia al ritorno si gettano manate di grano in sogno di abbondanza. Agli invitati si distribuisce la tradizionale «calia», cioè ceci e fave abbrustolite con vari bicchieri di vino; di rado la gente minuta offre paste e rosoli. In questi ricevimenti c’è sempre un capo che mette le donne separate dagli uomini, in istanza attigua o magari nella medesima stanza, e lo stesso si usa a tavola o a tavolino se si fa pranzo o giuoco.

Dopo il rituale banchetto, si balla al suono dei zufoli o del tamburello. Il ballo preferito è una specie di tarantella, chiamato « balletto» o «chiovu», nel quale la fanciulla prima deve danzare con lo sposo e poi, a turno, con ciascuno degl’invitati. A tarda ora tutti gl’invitati accompagnano la coppia felice alla nuova casa, e le fanno gli ultimi auguri.

La vita coniugale è quasi sempre felice, se pur assai monotona; l’onestà della donna dev’essere rispettata perchè le offese all’onore son pagate col sangue. L’autorità del marito è ancora grande, ed egli tratta la moglie (parliamo sempre dei ceti più bassi della società) con un certo sussiego; raramente egli si mostra espansivo e fa carezze alla consorte, che non va sola per le vie, sta quasi sempre in casa, e se sede a! balcone, si mette con le spalle alla strada per non essere ammirata dai curiosi.

La contadina è molto religiosa, sino alla superstizione, e non tralascia di recitare rosari e di farli recitare ai figli ed al marito. Va ogni giorno a messa trascinandosi dietro i marmocchi, e invoca la benedizione di Dio per sè, per la famiglia e per tutta la città.

La nascita di una femmina è poco gradita dal padre, che invece è giulivo quando ha un figlio maschio. Più femmine costituiscono povertà per la famiglia; dice il proverbio:

Si a la to casa na fimmina nasci,

N’c nenti si cu una la finisci;

Ma si di longu autri ni nfasci,

Sii di certu ca t’imppuvirisci.

Le bambine sono appena sopportate, e se muoiono, il padre non ne prova gran dispiacere; mentre egli si rattrista e piange quando il suo asino (per lui tanto necessario e indispensabile) muore, non si commuove gran che per la perdita di una figlia.

Le fanciulle non palesano mai il desiderio di andare a marito, se no passerebbero per sfacciate e sgualdrine; nel maggio, sotto la tutela di una parente o amica maritata, vanno a raccogliere fiori per ornare l’altarino della Madonna, alla quale la sera devono cantare lodi e rosari ed invocare segretamente un buon partito. Ed in campagna, ognuna, seduta sul verde tappeto, prende una margheritina, ne stacca ad uno ad uno i petali e ripete il mollo: « l’aju, o nu I’aju » cercando d’indovinare se avrà o no il marito; La parola che coincide con l’ultimo petalo strappato le darà il responso.

Varie sono le pratiche superstiziose che le ragazze usano fare per sapere se il futuro marito sarà bello o brutto, giovane o vecchio, ricco o povero, fedele o traditore; c’è chi adopera le pagliuzze e le getta al vento, per constatare se cada prima quella designata per indicare il bello o l’altro; altre ragazze indovinano il mestiere o la condizione morale dello sposo desumendolo dal primo uomo che incontrano per via; altre dalla scelta delle fave nascoste sotto il cuscino; altre dalla forma bizzarra che assume il bianco dell’uovo messo in un bicchiere la notte di S. Giovanni; altre infine vanno a visitare S. Antonio o S. Vito, che sono ritenuti protettori delle zitelle, e da taluni segni indicano loro il futuro marito.

inoltre vi sono delle lunghe e varie tiritere, che si dicono ai santi per invocare il marito desiderato. Eccone una:

San Giuvanni Scriviti li banni;

Lu parintatu pozza diri di si;

Vogliamo chiudere questo breve articolo riportando alcuni canti d’amore e di sdegno, che abbiamo udito da un contadino e da un vecchio pastore di Agrigento. Essi li cantavano accompagnati da un giovinetto che suonava « lu magarruni » che è un piccolo oggetto di ferro a forma di cerchietto allungato, il quale si restringe all’estremità jn modo da formare un angolo. Nel mezzo di esso corre una laminetta d’acciaio, che finisce filiforme. La parte dove finiscono gli estremi del cerchietto si mette in bocca tra gl’incisivi e i canini, e si tiene di fuori la parte circolare, in modo che la bocca faccia da cassa armonica. Immettendo il fiato e toccando la linguetta d’acciaio si produce un suono flebile e monotono che bene si adatta ad accompagnare i canti.

Affaccia, bedda, cu ’stu visu sapuritu,

Vidi ca canta lu to ‘nnamuratu,

Iu ti l’è mmettiri l’aneddu a ’stu ’itu (1),

Ni ’stu ’ittuzzu (2) di melincannatu (3).

Tu si comu un aranciu culuritu,

La rosa e lu garofalu s’à licatu (4),

’Nu iornu t’àia venire maritu,

Nuddu ci avanza ca iu t’àiu amatu.

Li to billizzi mi fannu ’ntratiniri,

Fuor che di tia a nuddu voghiu amari,

D’un quartieri a n’autru mi vonsi (1) partiri.

 ’Ntra spia e spiannu ti vinni a truvari.

Si veni la morti, nun vurrà (2) muriri,

Quantu di tia nun mi pozzu dispisari (3);

Tu mille peni m’à fattu patiri,

Pinsavu a tia e mi scurdavu a me ma (4).

Notti e iornu li vaneddri tessu,

Darrè (1) di li to porti non m’arrassu (2),

Vo’ sapiri picchi ti vegnu appressu?

Pi iu superchiu amuri nun ti lassu.

L’amanti l’àiu ca nu ni l’àiu persu,

Ora la stimu di cori e nun la lassù,

A li vicini me un ci degnu ’ntrassu (3)

Piaciri ci dugnu, iocu e spassu.

Si fora aceddu ca vulassi,

Quantu vulassi e vinissi ni tia (1),

Supra li to grinocchia (2) m’assidassi,

Ti la cuntassi la gran pena mia;

I             

(2)          Ditino.

(3)          Micie a forma di canno, affusolato.

(4)          Legato.

II            

(2)          Vorrei.

(3)          Sposare.

(4)          A mia madre.

(2)          Mi allontano.

(3)          Non dò interesse, conto.

IV          

(2)          Ginocchia.

La genti ca nni cuntanu li passi,

Nni dicinu ca à esseri tu l’amanti mia,

Ora fineru li iochi e li spassi,

Vàsami e ricordati di mia.

Aiu la testa me (1) misa a campana (2)

 P’una picciotta chiamata Angilina,

‘Sta picciotta di quantu è baggiana,

Muta ’na vesta ogni matina.

Avi la faccia di la megliu dama,

Mancu sarissi (3) figlia di rigina,

Cu si curca cu tia ’na sirintina (4),

Ca di lu nfernu imparadisu acchiana.

Bedda, ’st’ucchiuzzi to su’ macchinetta,

Li to billizzi cu la genti appata (1),

Nascisti a Roma e criscisti a Caserta,

 Vattiatedda a lu fonti di Matta (2),

D’oru e d’argentu teni la fodetta (3)

Adurnatedda di grana di carta, tu li farrà cca t’unzi ti detta (4)

Si pi ’na vota mi vinissi fatta!

Bedda, nascisti, a la cita di Ielu,

Si figlia di un principi spagnolu,

Ni la to facci po’ purtari un velu

Arraccamatu di sita e fila d’oru.

Bedda, li to billizzi li scriveru (1),

La facci tunna e l’occhiu mariolo,

Bedda, ti lu dicu pi davveru,

Siddu un mi pigliu a tia, schettu (2) morii.

Tutti li schetti mi tinniru mmitu (1)

Ora ci vaiu i ca fu mmitatu,

Vaiu a casa e mi vestu pulitu,

IV          

(2)          E’ stonata.

(3)          Se fosse.

(4)          Sera

V            

(1) Nessuno può paragonarsi alla tua bellezza.

(2)          Malta.

(3)          Sottoveste.

(4)          Debito.

VI          

(2)          Scapolo.

Fiura (2) fazzu di i’annamuratu.

La picciula mi voli pi maritu,

Lassa ca m’allibcrtu di surdatu (3), Un iomu t’àiu a viniri maritu,

Ci lu po’ diri a lu to parintatu.

(3)  Lascia che mi liberi dal servizio militare.

Làida, Iaiduna, untata d’ogiiu.

Tu vai dicennu ca a tia mi pigliu,

Nè t’àiu vulutu e mancu ti Vogliu,

Ca mancu m’à vinutu ’n fantasia.

Vattinni a mari sùpira nu scogliu,

Quantu ti stridii (1) e levi ‘sta lurdia,

Po’ ti mannu a dicu si ti vogliu,

O ti vogliu, o nun ti vogliu sta a mia.

Quannu passu di cà un ti fìssiari (1)

Ca tu ti cridi ca passu pi tia,

Passu comu è di liggi di passari,

Corau un foristeri pi so via.

Maritati si ddu à di maritari,

Nu stari spranza a la pirsuna mia,

Fori (2) tu ricca di rrobbi e dinari,

Mancu fatta d’oru ti vurria.

Nun ti mariti no, sali nni menti (1)

Su iardineddu to rista vacanti,

Tu va dicennu ca ti vonnu tanti,

Soccu (2) tu dici nun ci n’è nenti.

Tu disprezzi Pomi ni ca sunnu tinti,

Lu cchiu tintu vurriatu (3) pi amanti,

 Di quantu n’à fattu n’à fari chianti,

 Ca lu to cori un s’à vistu cuntenti.

 I    

        (1) Insuperbire.

La coffa (1) ca mi dasti era putrita (2),

 Dicudicina (?) fu mala curata (3)

Di certu sacciu ca nni si pintuta,

Di novu la vurriatu turnata,

La me pirsuna ca è statu di valuta,

Di li schetti à statu disiata,

Si mi pigliava a tia rarripudduta (4)

La me pirsuna era rovinata.

A quannu a quannu m’ava maritatu,

Quasi ca lestu era lu partitu,

Vinni un amicu bonu fldatu,

Mi lu ilei lassari iri (1) lu partitu.

Vidi ca lu ferra à maniatu

La donna parturì senza maritu,

Lu mischinu di mia avia ncagliatu,

Li corna fatti senza essili zitu.

Di ’sta vanedda mi Acini zitu,

Senza lu cunsensu me d’essiri datu,

Ci àiu vinutu comu amicu,

Ora ci vegnu comu ’nnamuratu,

Ti lu mannavu a dissi cu dd’amicu,

Ca ti vaiu lassonnu a pocu a pocu,

Si tu nun fa comu ti dicu,

A tie ti resta la vampa e a mia lu focu

Lu chiuppu è parente di la zasa (1),

La calunnia c’è manca la scusa,

’Sta vucca to nuddu la vasa,

Si Aglia d’una razza Ascinusa, (2)

Li to parenti mi Acini la basa,

Vonnu ca mi pigliu a tia, cosa tìtusa,

Mallittu (3) chiddu omu chi veni a la to casa,

Si licca, mangiatoria (4), e lagnosa (5).

V    

Laida ca tu propria ti sputi,

Tu si la cruci di li me piccati,

Pi nzinu (2) li iardina abbrivirati (3).

Chini di chiai (4) e agghimmati (5).

Diu Ca da to casa ini n’alluntànavu,

     Pi parli me ti sputu e ti schifu,

Malidittu ddu tempu ca t’amuvu.

Siddu pi sorti na chiesa ti viu (1)

Lassù perdiri la missa e mi nni vau,

Si nicchi (2) vota mi veni disiu,

Sputi ’sti mani me si a ttia tuccaru.

Mi passa, mi passa dda fantasia,

Unni avia la menti a tutti l’uri.

Chi era ciecu di l’occhi e nun vidia?

Ora mi n’addunavu di l’erruri.

Amati ad autru un amari a mia,

Un àiu amatu donni tradituri,

Lu tradimenti! chi facisti a mia,

Fu comu Giuda lu flci a lu Signuri.

SAVERIO LA SORSA, antiche tradizioni popolari di Agrigento

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